V13 di Emmanuel Carrère

E’ stato un viaggio complicato quello vissuto lungo le pagine di Carrère dedicate al processo per gli attentati del 13 novembre 2015.

Devo confessarlo, anch’io come molti li ho sempre chiamati “attentato al Bataclan”. E invece il Bataclan è stato una parte, tristissima, della vicenda ma non la sola visto che altri due commandi si sono fatti esplodere allo Stade de France e nei bistrot del X e XI Arrondissement.

Questa cronaca nasce dalla partecipazione di Carrère al processo: per i dieci mesi del processo Carrère si è recato ogni giorno in tribunale. Ha ascoltato le parole, ipocrite o meno, degli imputati; il dolore dei sopravvissuti che hanno raccontato una storia di sconvolgente ferocia; il dolore di chi ha perso una mamma, un padre, un figlio, l’amore della sua vita e che, suo malgrado, si è trovato a fare i conti con la realtà.

Le pagine di Carrère sono sì una cronaca edita all’esito del processo e dei resoconti settimanali già pubblicati durante i dieci mesi in cui si è svolto il processo, sarebbe però riduttivo considerarle un mero reportage che riporta, sic et simpliciter, tutti gli eventi così come si sono svolti. Si tratta di un’opera più profonda in cui si alternano riflessioni, anche scomode, sulla giustizia (La Francia è stata colpita con spietata ferocia ma siamo sicuri che sia stata la prima ad essere colpita?) il perdono da parte delle vittime fino alla quasi aberrante esternazione di uno degli imputati in merito al rancore (“Non so se le vittime hanno rancore nei miei confronti» (rancore!) «ma dico loro: non permettete al rancore di soffocarvi. In questa storia c’è molta oscurità, ma filtra anche della luce... Forse è inopportuno dire questo davanti alle vittime, ma è quello che ho provato ascoltando alcune di loro. Sono uscite più forti da questa prova, sono diventate persone migliori, con qualità che non si possono trovare al supermercato...») ma anche il dolore lancinante di chi resta. Particolarmente straziante a questo riguardo, la testimonianza della signora Nadia a cui la figlia Lamia è stata ammazzata a pochi metri da casa. Da ultimo ma non per importanza, il senso di colpa del sopravvissuto (“sa che cosa ha fatto di male. Per arrivare all’uscita ha spinto, schiacciato, calpestato. È diventato una macchina da sopravvivenza che se ne fregava di tutto il resto (…) altri sono stati eroici, lui no. Si rivede incessantemente nell’atto di spingere, schiacciare, calpestare (….). Per questo è venuto. Per chiedere perdono a quelli che ha calpestato)”.

Per quanto Carrère utilizzi un tono calibrato, da più parti si sprigiona il vuoto della perdita ma anche del senso di impotenza.  Ho molto apprezzato il registro stilistico utilizzato, ben lontano dall’enfasi che a pieno diritto avrebbe potuto contraddistinguere uno scritto di questo tenore.  Carrère ha cercato di fare quanto detto da uno dei jihadisti ovvero procedere alla lettura del libro dall’inizio («Tutto quel che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Il libro dovreste leggerlo dall’inizio»).

Ed è proprio in questo che risiede la grandezza dell’autore che non giudica e riesce nell’arduo compito di restare imparziale dinanzi ad un evento che ha colpito al cuore il suo paese.

Bisogna pur cercare di capire che cosa si è inceppato nel meccanismo perché quegli stessi terroristi che per dieci mesi sono stati seduti al banco degli imputati sono stati dei “bambini che qualcuno ha tenuto per mano”. 

È stata una lettura dolorosa e coinvolgente che consiglio.





 

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